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31/05/2012 “Io industriale, predico una religione estinta”

«Il lavoro non si può fermare. Non si deve fermare. Se si ferma il lavoro è come morire da vivi, perché stai qui, ci vede, stiamo tutti qui carichi, pieni di energia».

«Pronti a rimetterci in moto e non c´è niente da fare. Giriamo nei piazzali come anime in pena, se nei capannoni avessimo animali li metteremmo in salvo e ricominceremmo a governarli altrove ma abbiamo macchine, e le macchine da sole non si muovono, e non possiamo entrare nemmeno un minuto a tirarle via da li, e ogni giorno di fermo è un giorno in cui perdi clienti che ci hai messo una vita a conquistare, e se perdi clienti perdi commesse e perdi lavoro, intendo posti di lavoro, chi ci rimette davvero alla fine sono questi ragazzi che mandano avanti le famiglie con 1200 euro al mese e se li metti in cassa integrazione come fanno, cosa fanno, se gli togli lavoro gli hai tolto tutto davvero».
Vainer Marchesini ha una bella faccia che ride anche quando gli occhi sono bui, 66 anni, una bicicletta sotto il sedere, una busta di tabacco in tasca, due figli trentenni, 2200 dipendenti, 21 centri di produzione e 35 di vendita in tutto il mondo. Wam, si chiama la ditta. Sede centrale: Cavezzo. L´epicentro del terremoto che ha fermato il rombo ininterrotto dei motori che tutti, qui, sanno far funzionare fin da bambini. Cominciano smontando il motorino, finiscono facendo a gara con le macchine per vedere chi va più veloce, se l´uomo o la pressa. Ha cominciato con 64 mila lire e un´idea: fabbricare un tubo con un´elica dentro per trasportare il cemento, una coclea. Orfano di padre, sua madre bracciante agricola. Era il 1967. Ha lasciato i campi e si è messo a realizzare quell´idea: a mano, con saldatrice e cannello. Il primo anno di quei tubi ne ha fatti tre. Oggi è leader di macchine di precisione per il trasporto polveri nel mondo intero, ha cento brevetti internazionali, produce in America e in Cina, in Turchia e in Australia, in Brasile, in India. «Non ho fatto niente di speciale, era facile negli anni Sessanta, se avevi un´idea la realizzavi e via, poi lavoro lavoro lavoro, e basta. E´ oggi che non è più così, perché abbiamo smesso di vedere la ricchezza dov´è: la ricchezza è nelle cose, nella terra e nel mare, nel lavoro che li trasforma, nella manifattura, nell´ingegno che produce gli oggetti. Non nella finanza, no. Quello è un inganno. Eppure guardi, qui non abbiamo neppure le strade per portare nel resto del mondo i pezzi che produciamo solo noi. E´ come se fossimo monaci che si ostinano a praticare una religione estinta: quelle che ci hanno insegnato i nostri nonni e i nostri padri che anche la domenica, anche a Natale andavano nei campi. E ora cosa ci dice questo terremoto, cosa ci insegna? Se si ferma la produzione ci fermiamo tutti, questo ci dice: di lavoro si può morire, ma senza lavoro si muore di certo. Qui il terremoto non l´abbiamo mai visto, le nostre chiese, quelle che sono crollate, avevano mille anni. Qui ci aspettiamo le inondazioni, e siamo pronti. Ma la terra che salta e che ti mangia no, è una paura nuova. Rompe per sempre quella pazienza tranquilla di cui siamo fatti, lo so. Lo vedo negli occhi dei miei ragazzi. Non c´è rimedio a una paura nuova. Però bisogna fare, adesso, e fare subito».
Lascia la vecchia bici, l´appoggia a un albero. Si toglie il casco giallo dalla testa, saluta i ragazzi sul piazzale. Dà uno sguardo dentro la pancia buia dei capannoni con l´apprensione esperta che sua madre avrebbe riservato alla mucca che non dà latte nella stalla. Monta un ufficietto sotto un acero, venga che si sta sicuri qui, portiamo la scrivania e le sedie all´ombra. Si fa una sigaretta col tabacco. Sbuffa una volta sola, ma poco, quando al telefono gli spiegano che più o meno serviranno 8 milioni per rifare tutto, capannoni in sicurezza, e ripartire.
Dà un´occhiata all´orizzonte. Cavezzo chiusa dalle transenne. Deserto e silenzio. «E´ bello qui, vero?». Capannoni industriali a perdita d´occhio. «E´ come un motore sempre in moto, lo vede? Poi quando è finito l´orario della fabbrica si torna alla terra che la terra è paziente, sa aspettare che suoni la sirena di fine turno, e se c´è ancora luce si lavora lì. Si lavora il doppio e nessuno mette nel conto il suo lavoro. A me per vivere i soldi non mi servono quasi a niente. Una bici, il tabacco, poi son sempre qui. Anche la domenica. Quel che si guadagna torna tutto in azienda. E come me ce ne sono mille, guardi, uno in ogni capannone. Io sono la fotocopia di tutti quelli intorno. Ormai vecchietti – ride – ma ancora pieni di energie». La fotocopia di tutti quelli intorno. La terra continua a ballare sotto le sedie all´ombra dell´acero. Otto milioni di euro. Ma come si fa, ora? «Si fa, si fa. Si spende di meno, si lavora di più. Ci facciamo venire un´idea. I ragazzi dell´unità di crisi – li chiamo così i nostri quarantenni, io invecchio ma non voglio mica che invecchi la fabbrica, sono tutti laureati – sono già lì che ci pensano. Ora dobbiamo essere sicuri di poter ripartire, perché noi non abbiamo avuto morti ma l´ingegnere che è rimasto sotto le macerie martedì era da noi domenica e non smetto di pensare a lui. Sembrava tutto a posto. La paura chiede tempo. Ora fino a lunedì stiamo fermi, poi vediamo. Certo dobbiamo ripartire. Presto, prestissimo».
Vainer si chiama Vainer perché quando è nato sua sorella era innamorata di un partigiano di 22 anni, bellissimo, fucilato nei campi, che si chiamava così. Qui nel carpigiano hanno nomi che non somigliano a niente, magnifici. «A otto anni ero orfano di padre, mia madre lavorava nei campi, mi ha mandato in un collegio di preti a studiare il greco e il latino. Bologna, fuori casa. Poi la scuola tecnica, cinque anni, poi il primo lavoro in un´azienda di costruzioni. Ufficio Acquisti. Dopo un po´ ho pensato che una macchina che compravamo si poteva fare meglio di così. Ho preso la buonuscita, 64 mila 432 lire. Era il 1967. Ho costruito una coclea per il trasporto del cemento, anzi tre. Tre in un anno, a mano, con saldatrice e cannello. Ho fondato la “Marchesini Vainer”, si metteva prima il cognome, allora. Il secondo anno ne facevo una alla settimana, poi una al giorno. Sono andato a cercare clienti in Germania, in Francia. Nel ‘73 ho brevettato una coclea verticale, per portare il cemento su nei silos. Sembra un´idea da niente ma non ci aveva pensato nessuno. Ho esportato tantissimo. Nell´84 ho cambiato nome. Wam. Ho messo la doppia “v” perché così l´azienda sembrava tedesca, la doppia “v” dà più affidabilità. Ho aperto in America, poi in Cina. Poi mi sono messo a studiare le polveri. Il successo dipende sempre dalla conoscenza. Come si comportano le polveri, lei lo sa? Ecco, non lo sapeva nessuno. Abbiamo brevettato valvole, filtri, sistemi di raccolta. Abbiamo aperto in Brasile, in India. Otto stabilimenti in Italia. Duemila e duecento dipendenti, ma il cuore è rimasto qui. Non abbiamo un grande fatturato perché al contrario delle filosofie correnti in quegli anni non abbiamo dato niente fuori. No outsourcing, no. Abbiamo tenuto tutto dentro. Investiamo nell´azienda. A me serve poco per vivere. La bici, il tabacco, lavoro anche la domenica. Gli operai, al principio, erano tutti di qui. Quando dico di qui intendo non la provincia, ma il comune. Cavezzo. Io stesso sono un forestiero. Sono nato a Solliera, dieci chilometri più in là. Cavezzo è Cavezzo. Poi sono arrivati gli immigrati dal Sud, soprattutto da Avellino. Begli anni, il territorio li ha accolti, si stava benissimo. Poi sono venuti gli indiani, i pachistani e i ragazzi dell´Africa centrale. Dal Ghana tantissimi. Hanno fatto anche una squadra di calcio qui in paese. A me pare che siano contenti del lavoro, io sono contento di lavorare con loro. Mi sono sempre tenuto lontano dalla politica. Quando un nostro dipendente è diventato sindaco ho smesso di andare a fare le pratiche in Comune. Prima ci andavo di persona, ora ci mando un impiegato. C´è un bel senso di appartenenza alla fabbrica, un grande rispetto reciproco. La Fiom è al 90 per cento. Abbiamo fatto dei contratti molto innovativi. Non abbiamo delocalizzato la produzione: abbiamo aperto centri di produzione per quei mercati, è diverso. Molti nostri operai, ai quali facciamo corsi di lingue, vanno poi all´estero e alcuni non tornano. A Shanghai vivono bene. Mia figlia Elena, che ha 34 anni, ha aperto li un´azienda di moda: qui a Cavezzo fa il design, in Cina vende servizi. Mio figlio Marcello invece lavora qui, coi manager che sono tutti quarantenni. La crisi del 2009 l´abbiamo sentita, certo. Ma in Europa: i mercati esteri vanno bene e ci tengono in alto».
«Il terremoto non ce lo potevamo immaginare. Qui l´amicizia della terra era una certezza. Ora bisognerà tirar già tutto quello che non è sicuro e rifarlo da capo. Quando è arrivato, alle nove di martedì, eravamo tutti al lavoro. In dieci secondi gli operai sono usciti, le prove di evacuazione sono servite, alla fine… Io mi sono messo sotto una colonna ad aspettare. Il capannone di ferro è intatto, è venuta giù una capriata in quello di cemento. Ma il ferro qui in Italia è carissimo, e in tanti casi non si può proprio usare per legge. Le nuove norme antisismiche le abbiamo osservate sempre. Non bastavano, si vede. Adesso dobbiamo spostare tutto, e dire che avevamo appena finito di montare i pannelli solari…Bisogna fare presto, prestissimo. Un mese di fermo è troppo tempo. Ora ci rimbocchiamo le maniche e ricominciamo. Non posso mica lasciarli senza lavoro, questi ragazzi qua. Se ti si ammala una mucca la curi e la guarisci. Il futuro è questa cosa qui. Fare le cose, produrre, inventare le soluzioni ai problemi. E non arrendersi mai, mai. Che il latte non arriverà se non dalla stalla, mi creda. L´unica cura che conosco è il lavoro. Un´altra non c´è».

Concita De Gregorio, la Repubblica 31.05.12

 

[Ultimo aggiornamento: 04/01/2013 15:49:28]

 

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