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voci della miniera_ Ribolla sessanta anni fa e dieci anni fa

La mattina del 4 maggio 1954, rimasero nei cunicoli del pozzo Camorra, duecentosessanta metri sotto il livello del mare, i corpi di quarantatré minatori. Mariti, padri, fratelli.

A maggio di dieci anni fa l'intero paese di Ribolla si riprese la memoria su quanto era successo nella miniera cinquanta anni prima: «Una narrazione collettiva per trasformare il dolore individuale in un materiale utile perché Ribolla abbia una sua identità».

Ringraziamo Anna Natali per averci ricordato l'esperienza di Ribolla, a margine del workshop su Narrations and communities: building communities for making citizenship, e aver rintracciato dall'archivio di la Repubblica 2004 l'articolo "Voci della miniera" (di Francesco Erbani), che riportiamo anche qui di seguito, e anche Lavorare con le storie (ma non in balìa degli storytellers) (di Simone Giusti, 2013), che leggete al link della loesher con tutti i riferimenti al lavoro di Giusti.

 

 

Voci dalla miniera
la Repubblica 30 aprile 2004
A Ribolla, un borgo di tremila abitanti, comune di Roccastrada, Maremma grossetana, maggio sarà il mese della memoria. Una memoria che non è stato semplice distinguere dal dolore e dalle divisioni che ha generato: per cinquant' anni la memoria di Ribolla è rimasta sepolta, come sepolti, la mattina del 4 maggio 1954, rimasero i corpi di quarantatré minatori nei cunicoli del pozzo Camorra, duecentosessanta metri sotto il livello del mare. A ogni decennale quella tragedia veniva commemorata, c' erano il palco e il comizio, e nel 1984 sorse un monumento. Ma chi era sopravvissuto, chi aveva perso il marito, il padre, il fratello, tutta Ribolla, insomma, pensava che la cosa meno utile fosse parlarne. Per tanti motivi. Così è andata fino a oggi. Dal 4 al 30 maggio, invece, quel grumo potrebbe sciogliersi e l' intera Ribolla diventerà una macchina narrativa, come se la rappresentazione di sé e la letteratura fossero il modo migliore per lenire il dolore silenzioso. Una specie di terapia collettiva, teatrale, che dovrebbe servire a ricominciare: mostre fotografiche, visite guidate a ciò che resta dei pozzi, un convegno di studi, la pubblicazione di due libri, la riedizione di altri, una rassegna cinematografica, la presentazione di uno sceneggiato radiofonico. E poi un lavoro, sempre narrativo, con gli alunni della scuola elementare. E soprattutto la raccolta in un volume delle testimonianze di chi visse la tragedia: dai ricordi della vita quotidiana in miniera all' angoscia dei giorni che precedettero l' esplosione, quando tutti a Ribolla temevano che qualcosa sarebbe successo, visto che la proprietà - la Montecatini - aveva intenzione di chiudere i pozzi e, per risparmiare, aveva allentato le misure di sicurezza. Il libro, La miniera a memoria, lo pubblica il Comune e lo cura Massimo Cipriani, che insieme a Simone Giusti e al giovanissimo sindaco Leonardo Marras è il motore dell' organizzazione. Il disastro di Ribolla si è già affacciato sulla scena letteraria. Luciano Bianciardi ne parlò, insieme a Carlo Cassola, in I minatori della Maremma (che ora viene ripubblicato dalla casa editrice ExCogita, di proprietà di Luciana, la figlia di Bianciardi) e poi ne fece la spinta che aveva indotto il giovane grossetano protagonista de La vita agra ad andare a Milano, dove quasi ogni giorno si appostava sotto "il torracchione di vetro e cemento", sede della Montecatini. Il suo obiettivo era questo: installare un tubo nel quale far scorrere tanto metano da saturare il torracchione di grisù, un miscuglio esplosivo. La stessa miscela scoppiata a Ribolla. Ribolla è nella pianura che si distende davanti a Montemassi. Nacque ai primi del Novecento, quando intorno ai pozzi vennero costruiti i dormitori per gli operai. Nel 1954 era formata, racconta Bianciardi, da «un grappolo di casupole e cameretti sparsi in disordine». Niente storia, niente di niente se non la miniera e le case, il cinema e la chiesa, tutti edifici costruiti dalla Montecatini (che in cambio tratteneva agli operai una giornata di paga). Per identificarla, però, Bianciardi ricorreva a un affresco di Simone Martini: Ribolla sorge, scriveva, nel punto in cui staziona il cavallo bardato di losanghe nere che Guidoriccio da Fogliano guida all' assalto di Montemassi. Spiega Cipriani: «Ribolla è ancora un paese senza piazza, senza un luogo d' incontro. E la morte di quei minatori è rimasta come un macigno: non che manchino i racconti su quella tragedia, sono però racconti individuali, che non si è mai riusciti a mettere in comune. A Ribolla sono prevalsi sentimenti contrastanti che hanno impedito a questa collettività di avere un fondamento comune sul quale costruire un futuro senza la miniera». La memoria a Ribolla si è frantumata, inseguita da rancori e paure. Alle 8 e 20 del 4 maggio 1954 due esplosioni devastarono il pozzo Camorra. La tragedia era attesa. Per il primo maggio la miniera era rimasta chiusa due giorni e il caposquadra - racconta Bianciardi - aveva insistito perché i gas accumulati venissero scaricati. Niente storie, replicò l' azienda, che nel frattempo aveva anche dismesso la tecnica, troppo costosa, di riempire di terra i cunicoli ormai sfruttati reggendo le volte friabili con delle impalcature. Impalcature che, con l' esplosione, cedettero seppellendo i minatori. Dalla tragedia scaturì un processo, che si svolse nell' autunno del 1958 a Verona. E fu un dramma nel dramma. Un anno dopo l' incidente, erano stati arrestati Lionello Padroni, direttore della miniera, e altri due dirigenti. Ma la Montecatini scatenò i suoi avvocati e ottenne, pagando risarcimenti, che le parti civili si ritirassero dal processo. Molti testimoni, inoltre, anche figli e parenti dei morti, erano tornati in miniera e in dibattimento non infierirono. La sentenza giunse dopo venti udienze: assoluzione piena per gli imputati. Una volta assolti i dirigenti, il 25 aprile del 1959 - una data che aveva il sapore della sfida - la Montecatini licenziò tutti, demolì i magazzini, i castelli dei pozzi, gli edifici con i generatori di corrente e per gli impianti di ventilazione. Ribolla era la Montecatini e la Montecatini ne dispose come di un ferro vecchio. La sconfitta al processo prostrò Ribolla. Chi aveva accettato dalla Montecatini i soldi o il lavoro per i figli venne guardato con diffidenza. Sui risarcimenti era intervenuto anche Giuseppe Di Vittorio, che era stato il protagonista dei funerali, svoltisi di fronte a cinquantamila persone con le bandiere rosse e il caschetto giallo su ogni bara. Il segretario della Cgil aveva fatto capire che non era possibile fermare chi, perso il marito o il figlio, prendeva qualche lira dalla Montecatini. è questa, spiega Cipriani, una delle ragioni della memoria divisa di Ribolla, che Laura Maggi descrive come "una preda braccata" intenta a cancellare le sue tracce (si intitola così il suo libro uscito in questi giorni). E il macigno di cui parla Cipriani verrà raffigurato, per tutto il mese di maggio, da un parallelepipedo nero costruito davanti al cinema in cui vennero portate le salme. Ha le stesse dimensioni di uno dei magazzini della miniera e lì saranno affisse testimonianze e fotografie. Ma i risarcimenti non sono la sola spiegazione di quella memoria negata. Nel libro curato da Cipriani una donna racconta che, all' uscita da ogni turno, i minatori venivano perquisiti e, se nascondevano un misero pezzo di lignite per scaldare il camino, si beccavano tre giorni di sospensione. «Io questa storia gliela racconto», aveva aggiunto la donna, «ma lei non vorrà mica scriverla». La Montecatini, che non esiste più, mette ancora paura. è una specie di ente metafisico che continua a esercitare la sua vigilanza. E da molti è considerata come una matrigna senza la quale, però, Ribolla non sarebbe neanche esistita. Era un nemico spietato, aveva saccheggiato il sottosuolo e portato la morte, ma, da quando era sparita, a Ribolla è mancata la ragion d' essere. Avevano persino organizzato una squadra di calcio, pagavano le magliette, i giocatori e le trasferte, ma, terminato il campionato del '54, anche il calcio finì a Ribolla. «La narrazione collettiva», dice Simone Giusti, «è il primo strumento per trasformare quel dolore individuale in un materiale utile perché Ribolla abbia una sua identità». Adesso i pozzi sono sigillati da due tappi di cemento. Sono una trentina. In altri luoghi maremmani, che fanno parte del Parco delle colline metallifere, le miniere abbandonate, scavate nella roccia, sono attrazione per visitatori. A Ribolla no. «Il contributo che offriamo al Parco è in queste narrazioni», dice Cipriani (e su questo tema si sofferma un altro libro: Da Ribolla al parco minerario di Elena Scapigliati). Ma, anche se sbarrate e piene d' acqua, le gallerie sono tutte qui, sotto una verdissima prateria ondulata, che un tempo era occupata dal carbone con i suoi bagliori lunari, e ora giunge tra filari di alberi e macchie impaludate fin sotto la rocca di Montemassi. Florio Petri non ha mai lavorato per la Montecatini, ma conosce questo luogo come fosse casa sua. Ha settantacinque anni. Suo padre Ferruccio fu il primo dei minatori estratti dal Camorra. Con Florio ci si inerpica lungo una via sterrata e, come fossero guerrieri solitari, si incrociano i relitti della miniera - il "muccone", per esempio, come chiamano l' edificio nel quale si selezionava il materiale estratto e che ha nel ventre dei grandi imbuti che sembrano mammelle gonfie di latte. In cima a una collina ecco i ruderi del Camorra. Tutt' intorno, nel verde intenso di colline che si perdono alla vista, corrono i filari di un vigneto, allestito dall' azienda di Gianni Zonin, che ha anche acquistato i ruderi («ma vogliamo che restino così, che la Soprintendenza imponga un vincolo», insiste Cipriani) e che ha piantato in una grande aiuola quarantatré cipressi. Uno per ogni morto del '54. E dai cipressi e dalle narrazioni, per la prima volta intrecciate e corali, il piccolo borgo rinasce.

RIBOLLA (GROSSETO) FRANCESCO ERBANI
la Repubblica 30 aprile 2004

 

 

 

 

[Ultimo aggiornamento: 28/06/2014 11:10:11]

 

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